L’azionario USA è salito con forza a gennaio, convincendo un gran numero di investitori sul fatto che il peggio sia già passato, che il bottom sia già stato toccato.
Ma dal mondo continuano ad arrivare segnali che fanno presagire un futuro non così roseo, ingredienti che si vanno a sommare creando la ricetta perfetta per una nuova crisi globale.
In questo articolo abbiamo raccolto alcuni dei principali elementi che si contrappongono all’idea di “Soft Landing”.
1. IL DOLLARO FORTE NON PIACE AGLI EMERGENTI
La maggior parte del debito emesso dai mercati emergenti è denominato in dollari; dal lato offerta, questo serve a facilitare l’ingresso sui mercati internazionali, dal lato domanda, permette di evitare l’esposizione alla valuta domestica che spesso non gode di buona reputazione.
Con un dollaro sotto controllo non ci sono svantaggi ma nel caso in cui la valuta americana dovesse apprezzarsi potrebbero generarsi una serie di problemi: l’esposizione valutaria verso il dollaro che l’emittente si assume rende vulnerabile il proprio debito a eventuali oscillazioni; le fluttuazioni peggiori si creano quando si innesca una corsa ai beni rifugio e quindi durante le crisi, amplificando così il deterioramento nel valore dei titoli obbligazionari proprio nel momento peggiore (Grafico 01).
Con una Fed restrittiva, il dollaro tenderà ad apprezzarsi ed il valore dei Bond emessi dai paesi Emergenti diminuirà. Inoltre, l’emissione di nuovo debito necessiterà di un tasso sempre più alto e gli investitori saranno sempre meno incentivati ad esporsi a rischi crescenti a fronte di un’alternativa rappresentata da Treasury americani con rendimenti sempre più alti.
In una situazione del genere i capitali cominceranno ad uscire dagli Emergenti per dirigersi verso gli Stati Uniti (effetto “Pull”) e questo metterà alla prova la stabilità finanziaria dei primi, che si troveranno a dover affrontare un debito a scadenza crescente a causa della denominazione in valuta estera.
2. L’INFLAZIONE DA ENERGIA STA TORNANDO
Il lockdown cinese aveva smorzato il rally energetico, facendo tornare i prezzi di petrolio, carbone e gas a livelli “sostenibili”.
Ora che la Cina sta riaprendo le fabbriche, la domanda di energia sta aumentando ed i prezzi delle materie prime la seguono di conseguenza.
E così ecco che le aspettative d’inflazione tornano ad aumentare a pari passo con il prezzo della benzina con una correlazione positiva di 0.5 (Grafico 02).
L’energia è una componente che non rientra nella parte “core” del CPI (“Consumer Price Index”) e quindi una parte marginalmente importante, ma ha un forte effetto sull’aggregato totale che è sotto gli occhi di tutti e che può incidere negativamente sulle aspettative future dei consumatori.
3. LA SECONDA ONDA ESISTE
La famosa “seconda onda” di cui ogni tanto si sente parlare non è fantasia, ma un possibile scenario già visto in passato: negl’anni ’70 il picco inflazionistico fu seguito da un secondo rialzo abbastanza ravvicinato (Grafico 03).
Le linee tratteggiate nel grafico rappresentano i rialzi dei tassi della FED nei due momenti storici a confronto, in verde gli anni ’70 – ’80 e in rosso il 2022-2023.
Le linee continue, invece, mostrano il pattern inflazionistico dei due periodi: se la storia dovesse ripetersi, ad oggi saremmo perfettamente in timing per un nuovo rialzo.
4. L’INFLAZIONE CORE NON SI E’ MAI ABBASSATA
La Fed osserva l’inflazione attraverso le sue componenti “Core” cioè le parti strutturali e meno volatili; l’energia è esclusa da questo paniere, mentre i servizi ne rappresentano la fetta più grande.
Tra i servizi ci sono gli affitti delle abitazioni che costituisco più del 30% dell’intero indice; nel Grafico 04 possiamo notare come l’attuale variazione di questa componente abbia raggiunto i massimi degli ultimi 30 anni (ultimo dato di gennaio 2023).
Nonostante l’aumento dei tassi, i prezzi continuano ad aumentare inesorabili rendendo l’inflazione “sticky” (“appiccicosa”), allontanando sempre più il pivot della Fed.
5. IL PIVOT SEMPRE PIU’ LONTANO
Siamo passati da una FED troppo ottimista sulle previsioni di inflazione, ad un mercato troppo ottimista sul cambio di rotta della banca centrale: a novembre 2022 il mercato scontava come più probaile un range massimo dei tassi tra 4.75% e 5.00% ed un pivot (cioè un’inversione della politica di rialzo dei tassi) molto vicino, già dopo l’estate 2023.
Le aspettative sono peggiorate a febbraio, con i nuovi dati sull’inflazione da una parte e la resilienza dimostrata dall’economia americana dall’altra, traslando il pivot più in avanti.
Ad oggi, un mese dopo, vediamo un ulteriore peggioramento nelle aspettative, con un pivot che non vedrà luce prima del 2024 e tassi che raggiungeranno il range 5.50%-5.75% (Grafico 05).
È difficile pensare che la velocità con cui sono stati alzati i tassi e il livello raggiunto possano non avere forti effetti sul rallentamento economico, soprattutto con aspettative in continuo peggioramento.
6. ALLERTA IMMOBILIARE AMERICANO
La quantità di unità abitative iniziate mese per mese negli Stati Uniti sta crollando: tendenzialmente, le recessioni statunitensi sono state accompagnate da una riduzione di questo valore che mostra un rallentamento nell’edilizia.
Storicamente, la fascia d’allarme si aggira tra le 800 e le 1100 migliaia di unità mensili, quota a cui tendenzialmente si registrano i minimi (Grafico 06).
Ad aprile 2022 abbiamo raggiunto un massimo di 1800 migliaia di unità contro le attuali 1300, registrando un crollo del 27%. Un ulteriore calo del 15% ci porterebbe nella zona di allarme che, tra l’altro, si sposerebbe bene con il timing ipotizzato nel precedente articolo “Ciclo economico e cicli di settore 2023” riguardo all’inizio della recessione.
Ad aprile 2022 abbiamo raggiunto un massimo di 1800 migliaia di unità contro le attuali 1300, registrando un crollo del 27%. Un ulteriore calo del 15% ci porterebbe nella zona di allarme che, tra l’altro, si sposerebbe bene con il timing ipotizzato nel precedente articolo “Ciclo economico e cicli di settore 2023” riguardo all’inizio della recessione.
7. SCOSSE DALL’ESTERO
Il 2022 è stato un anno piuttosto complicato per Credit Suisse, dopo le ripercussione subite dal fallimento di Greensill Capital e Archegos Capital, società finanziarie a cui la banca era collegata. Il colosso svizzero, attualmente in fase di revisione dei propri conti, ha chiuso il suo quinto trimestre consecutivo in perdita, dovuto principalmente all’uscita di clienti spaventati per le vicende in corso, una corsa agli sportelli che sta ulteriormente complicando la situazione.
Oggi, invece, l’allarme arriva direttamente dagli USA, con casi di piccole banche che cominciano a barcollare a causa dell’enorme quantità di titoli di stato in portafoglio che, con l’aumento dei tassi, perdono di valore.
Nel frattempo, dopo il caso Evergrande (il colosso dell’immobiliare cinese), ora il governo di Pechino deve trovare una soluzione al forte indebitamento degli enti pubblici, arrivati, in alcuni casi, anche al 280% delle proprie entrate.
Intanto, a gennaio, con l’uscita del report prodotto dalla società di ricerca americana Hindenburg, le società indiane di Adani hanno perso nel complesso 120 miliardi di dollari di capitalizzazione: le accuse dirette al conglomerato vanno da frode contabile a manipolazione di mercato ed hanno generato un fuggi fuggi generale dalle società del gruppo (Grafico 07).
Adani è una complessa holding, non molto trasparente, molto diversificata, che tratta business che spaziano dall’energia ai trasporti. È il terzo conglomerato più grande dell’India ed è quindi strutturalmente legato alla sua stessa economia.
Il caso Adani può avere ripercussioni sulla stabilità finanziaria non solo indiana ma anche globale, essendo compresa all’interno di diversi fondi d’investimento.
Ci sono potenziali cambiamenti anche in Giappone, dove l’aumento dell’inflazione (dopo decenni deflazionistici), sta facendo pressioni su un probabile cambio di rotta della banca centrale; in tal caso, gli Stati Uniti si troverebbero costretti a sostituire il loro primo acquirente di debito pubblico, con probabili ripercussioni sui tassi.
Insomma, tanti eventi apparentemente isolati gli uni dagl’altri ma che la crisi finanziaria del 2009 ci ha insegnato a captare come possibili punti di innesco di potenziali crisi più ampie: l’alta interconnetività del sistema finanziario globale è capace di propagare rapidamente eventuali effetti negativi, amplificandone la portata.
8. INVERSIONE DELLA 10-2
Nell’ultimo secolo, lo spred tra i tassi a 10 anni dei titoli di stato americani e quelli a due anni ha sempre funzionato da precursore per le recessioni americane (Grafico 08).
L’attuale livello è il più basso degli ultimi 40 anni.
9. CAPE
Il CAPE (“Cyclically Adjusted Price to Earning”, o Shiller P/E), cioè il rapporto tra il prezzo azionario ed i suoi profitti medi degli ultimi dieci anni e corretti per l’inflazione è una misura che cerca di rendere il multiplo PE (di natura “relativa” e quindi soggetto ai cicli di mercato) una misura quanto più possibile assoluta, quindi anti-ciclica.
Prendendo in considerazione l’intero S&P500 e facendo riferimento al CAPE medio storico, possiamo trovare dei livelli di sottovalutazione e sopravvalutazione attraverso una suddivisione in base alla propria distribuzione storica dell’indicatore.
Il Grafico 09 mostra l’attuale posizionamento del mercato americano, in area ancora di estrema sopravvalutazione.
10. EQUITY RISK PREMIUM
Utilizzando una proxy realizzata attraverso l’ “Earning Yield” cioè il multiplo P/E invertito, e calcolandone il valore “trailing” (cioè progressivo), in riferimento al S&P 500, possiamo notare come l’attuale investimento in azionario comporti un premio per il rischio di poco sopra allo zero (Grafico 10).
La remunerazione spot in termini nominali di un investitore che decidesse di scegliere l’azionario americano rispetto ai titoli di stato sarebbe superiore di solo lo 0.66%.
Questo potrebbe essere determinato o da prezzi troppi alti o da utili delle società troppo bassi.
CONCLUSIONI
I 10 punti affrontati in questo articolo sembrerebbero a favore dell’arrivo di una recessione.
Il fatto di essere più inclini ad un “Hard Landing” piuttosto che un ”Soft Landing” è determinato dalla magnitudo mostrata dai vari indicatori: il livello e la rapidità con cui sono stati alzati i tassi, la quota raggiunta dalla curva 10-2, l’apparente sovravalutazione del mercato e tutte le altre indicazioni non sembrano indirizzarci verso un atterraggio morbido.
In un contesto del genere, l’azionario USA sarebbe destinato a scendere rispetto ai livelli attuali, con un possibile minimo all’interno (o poco dopo) la fase di recessione.